Personaggi storici P.R.I. lucchese

GIORGIO DI RICCO

Nativo del comune di Capannori (15 aprile 1892), grazie al sostegno di un parente poté accedere agli studi, culminati, dopo il diploma conseguito presso l’Istituto tecnico di Lucca, nella laurea in ingegneria. Nel 1911, iscrittosi al collegio militare di Roma, pur contrario alla guerra coloniale avendo già maturato idee repubblicane,  partecipò suo malgrado alla guerra di Libia.  Lo scoppio della prima Guerra mondiale lo fece collocare, invece, fra i  convinti sostenitori dell’intervento, visto come la continuazione dei valori risorgimentali e arruolatosi volontario,   fu inviato al fronte con il grado di sottotenente mitragliere della brigata “Regina”.  Nel corso di un combattimento, nel settembre del 1916, fu gravemente ferito, riportando la mutilazione dell’occhio destro. Promosso di grado per meriti di guerra,  congedato per le ferite, ritornò a Lucca dove si gettò con impegno nelle iniziative patriottiche e politiche. Il partito repubblicano lucchese, nonostante fosse un gruppo minoritario,  godeva di un solido  radicamento popolare, specialmente fra gli artigiani che si professavano laici e proprio nel corso del 1917 conosceva un ricambio generazionale che ne rinverdiva le strutture. La direzione del partito passava così nelle mani dei giovani mazziniani rientrati dal fronte e fra questi, l’ingegner Di Ricco. Rivelando capacità organizzative, veniva eletto presidente della vecchia associazione della Fratellanza Artigiana e qualche mese dopo nominato, dal ministro Comandini, segretario provinciale per l’Assistenza e la Propaganda Nazionale, ente istituito  per la risoluzione dei problemi di approvvigionamento e per l’assistenza dei soldati rimasti al fronte. Dietro sua iniziativa, nel dicembre del 1917, veniva costituita l’Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi di Guerra che avrebbe diretto fino alla primavera del 1919, quando nel corso di una tempestosa assemblea la sua presidenza veniva messa in minoranza dai moderati che lo  sostituivano con Gaetano Montauti. Appena finita la guerra, insieme a Frediano Francesconi, al quale sarà idealmente legata  tutta la sua esistenza politica, fondò il giornale locale “Il Baluardo”, organo dei repubblicani lucchesi,  che fra alterne vicende e saltuariamente sarà pubblicato fino alla primavera del 1953.
Nel 1922 Di Ricco fu chiamato alla presidenza dell’associazione laica della Croce Verde, alla quale si era iscritto con altri giovani repubblicani già nel 1915. Oppositore del fascismo, fin dalle sue origini, venne sottoposto a stretto controllo e schedato nel Casellario dei sovversivi politici. All’indomani del delitto Matteotti, Di Ricco e  il professor Mancini dettero vita al primo comitato di difesa antifascista, a cui parteciparono anche l’avv. Gino Giorgi, il repubblicano Guido Mandoli, i socialisti riformisti Alfredo Poggi e Alberto Magherini, i socialisti ufficiali Bruno Maionchi e Gino Massagli, Pietro Cecchini per l”Italia libera” e i popolari Giovanni Carignani, Lorenzo Del Prete, Pietro Pfanner. Le riunioni segrete di tale comitato, che fu ben presto costretto ad inabissarsi come un fiume carsico,  avvenivano per lo più nell’abitazione di Di Ricco o in quelle del cognato Pietro Cecchini, in via dell’Anfiteatro. Impossibilitato a svolgere la sua professione, dopo essere stato costretto a dimettersi da assistente della facoltà di Ingegneria di Pisa,  Di Ricco dovette lasciare Lucca e cercare lavoro prima a Verona e poi a Roma. Tornato in città  nel 1932, nonostante fosse sotto il controllo costante delle autorità,  riprese i contatti con gli amici antifascisti. Lo scoppio della guerra, nel 1939, fece loro intuire il prossimo coinvolgimento dell’Italia e l’inizio di una fase che avrebbe potuto portare alla fine della dittatura. Gli eventi che seguirono il 25 luglio del 1943  non trovarono impreparato Di Ricco, il quale, nel settembre dello stesso anno  - insieme ad Aldo  Mouston, a Giuseppe De Gennaro, a Giovanni  Carignani e ad Augusto Mancini che ne resse la presidenza fino al suo arresto, nel gennaio 1944 - costituiva  il Comitato di Liberazione Nazionale di Lucca che aveva competenza su tutta la provincia. La reazione dei tedeschi e dei fascisti non si fece attendere e nella notte del 3 gennaio del 1944 la polizia irrompeva nell’abitazione di Di Ricco, con il compito di arrestarlo. Fuggito poco prima, riusciva avventurosamente a raggiungere Roma, mentre la polizia incarcerava a S. Giorgio la moglie e, successivamente, la cognata. Membro della direzione nazionale clandestina del P.r.i., Di Ricco ebbe l’incarico di partecipare al primo Congresso dei partiti antifascisti tenuto a Bari, nel gennaio del 1944, ma il tentativo di traversare il fronte non gli fu possibile e rientrato a Roma,  cambiando spesso domicilio per non essere catturato dai nazisti, attese l’arrivo degli americani, che risalendo poi la penisola e liberando anche Lucca nel mese di settembre, gli permisero di ritornare a casa. Alla fine del conflitto  Di Ricco era di nuovo a capo, insieme al dottor Frediano Francesconi,  dei repubblicani lucchesi. Nel 1946 venne delegato da tutti i partiti a tenere l’orazione ufficiale nella manifestazione che celebrava l’avvento della repubblica. Eletto consigliere comunale e poi provinciale, fece parte della direzione della Camera del Lavoro e presiedette l’ordine  degli ingegneri della provincia. Gli ultimi anni della sua vita (morì il 21/7/1966, dopo che, in bicicletta, era stato investito da un’ automobile) furono oscurati dalle amarezze per la frattura avvenuta nel suo partito a causa della scissione di Pacciardi, personaggio al quale egli rimase sempre fedele.
  

FREDIANO FRANCESCONI

Frediano Francesconi (Lucca, 1892-1965) fu Presidente della Croce Verde dal 23 marzo 1956 al 30 aprile del 1960 ed il suo nome è compreso nell’elenco dei Benefattori della stessa istituzione.
Volontario nella Grande Guerra,  combattè negli Alpini, meritandosi la medaglia d’argento al valor militare. Inseparabile compagno di Giorgio Di Ricco, fece parte  di quel comitato segreto antifascista organizzatosi a Lucca dopo l’omicidio Matteotti e, durante l’assenza forzata del suo sodale,  rappresentò il P.R.I. nel C.L.N. di Lucca, la cui prima riunione non più clandestina si tenne in casa sua (5/9/44). Per la raccolta di fondi da erogare in favore delle formazioni partigiane, egli aveva escogitato un complicato sistema per l’emissioni di buoni, che permetteva di accertare il versamento di denaro al CLN, garantendo nello stesso tempo l’anonimato del finanziatore.
Egli si era ispirato al sistema inventato da Giuseppe Mazzini, per la raccolta dei prestiti nel periodo clandestino del Risorgimento.  Ha scritto di lui Giuseppe De Gennaro (un magistrato che fu Presidente del C.L.N. di Lucca): “Ricordo ancora vivamente il dottor Francesconi, che a me appariva come un patriarca, dato che per la sua età avrebbe potuto essere mio padre: ricordo il suo parlare di Mazzini come se fosse un suo amico ancora vivente, ed il suo giovanile entusiasmo nell’esporre ed utilizzare un sistema che era servito nel Risorgimento”.
  Insieme a Vannuccio Vanni e Cesare Del Guerra, Francesconi partecipò alla liberazione del colonnello di marina Brofferio, che era stato arrestato dai tedeschi. Nascosto nella  casa di campagna dello stesso Francesconi, a Vorno, dopo poco il militare passò alle formazioni partigiane. 
Medico,  specializzato in otorinolaringoiatria, svolgeva con grande umanità la sua professione in un ambulatorio in piazza dei Cocomeri, vicino a piazza S. Michele, adoperandosi anche direttamente, o tramite il C.L.N. lucchese, per salvare gli ebrei in fuga, durante le persecuzioni razziali. In particolare, con un intervento in extremis, clandestinamente, salvò la vita ad una anziana ebrea che stava per morire soffocata. Di lui ha scritto don Renzo Tambellini, un prete anch’egli impegnato nel salvataggio degli ebrei: “nonostante fosse massone era sempre stato benefico con tutti”. Insieme a Di Ricco figura fra i capi storici del partito repubblicano lucchese, per conto del quale ricoprì incarichi elettivi nell’amministrazione provinciale, nel Comune di Lucca e di Capannori. Sempre insieme a Di Ricco, fondò e gestì  Il Baluardo, il giornale mazziniano lucchese, nato subito dopo la fine della I Guerra Mondiale.


AUGUSTO MANCINI

Nato a Livorno il 2 marzo del 1875 , fu chiamato nel 1895, appena laureato, ad insegnare lettere classiche nel Liceo Machiavelli di Lucca,  città ben presto divenuta  sua  patria adottiva. Libero docente di letteratura greca, nel 1902 successe a Giovanni Pascoli  nella cattedra di grammatica greca e latina a Messina, dove rimase fino al 1906, quando l’Università di Pisa lo volle a   sostituire, ancora una volta, il Pascoli, confermandolo, poi, nella cattedra di letteratura greca, fino al  1948. Mancini non limitò i suoi studi alla filologia classica e, vasti ed incessanti, li fece spaziare dalla letteratura al pensiero del Rinascimento, agli autori bizantini ed alla storia del Risorgimento, dimostrandosi  ferrato quasi dappertutto. Ascoltarlo era un piacere - scrisse di lui Salvatorelli - dotato com’era di “una parola fluida, dai periodi ampi e formalmente impeccabili”  e i suoi interventi all’Accademia dei Lincei,  di cui  era socio, “rappresentavano un contributo concreto, personale di alta qualità”. Ma nello stesso tempo egli riusciva autorevole e convincente senza fare mai sentire la sua superiorità  e senza arroganza nei confronti di nessuno, poiché l’umanità del personaggio era pari all’altezza del suo ingegno. Generosità ed onestà erano a  lui congeniali e  furono doti che impiegò nei rapporti  familiari,  con  i molti che gli chiesero  aiuto  (poiché egli amava definirsi “l’avvocato dei poveri”), ma anche nella sua attività politica svolta con trasporto e come dovere di   “Uomo” e di “Cittadino”. Fu fra i primi soci della Croce Verde, della quale ricoprì la carica di  presidente dall’agosto del 1908 al maggio del 1909 ed, ancora, nel 1914. Inserito nell’albo dei suoi benefattori, la Croce Verde volle onorarlo, subito dopo la sua morte, istituendo una borsa di studio a suo nome e intitolando alla sua memoria, nel 1957, una delle sue nuove ambulanze. Le idee di Mazzini, del quale fu sempre seguace,  erano da lui ben conosciute ed interiorizzate, tanto da fargli ritenere la “Repubblica” come una “suprema creazione morale”. Sua fu l’iniziativa dell’istituzione della Domus Mazziniana di Pisa della quale fu il primo presidente e convinta, fino al 1913, fu l’adesione al partito repubblicano, dal quale si staccò quell’anno non condividendone la linea politica astensionistica. Fino ad allora il suo impegno politico si era dispiegato nelle battaglie laiche, particolarmente nutrite nel primo decennio del secolo, a fianco di uomini  a lui affini dell’area socialista e radicale e fu per merito suo che il giornale socialista “La Sementa” aveva ripreso le pubblicazioni nel 1907. Tuttavia maturava, in quegli anni di confusione politica, la fine dell’esperienza “bloccarda”, cioè dell’alleanza politica tra  repubblicani,  socialisti e  radicali,  progressivamente sgretolata dal canto della sirena  giolittiana. Coinvolti nel governo i radicali, incerti e contraddittori i socialisti, in parte placati dalla riforma elettorale  del 1913 lontana però dal suffragio universale reclamato dai repubblicani, a  loro volta divisi fra intransigenti e  sensibili  ai richiami ministeriali, venivano meno i presupposti per continuare una politica comune laica e riformatrice. Mancini  non rinunciava, però, alla lotta e accettava la candidatura radicale alle elezioni della Camera del 1913, per il collegio di Borgo a Mozzano, in contrapposizione al  clericale Tomba,  risultando sconfitto. Ripetute,  nel 1915,  dopo l’annullamento per brogli a favore di Tomba,  Mancini riusciva stavolta, col sostegno della sinistra lucchese, ad entrare in Parlamento. I drammatici anni che portarono alla guerra  lo videro schierato a sostegno dell’intervento,  ormai in rotta con i socialisti, contrari al conflitto e sempre più massimalisti. Nella complessità della situazione postbellica, fu eletto al Parlamento  nel 1919 e nel 1921, e dopo la disgregazione dei  radicali entrò nel  nuovo partito della Democrazia Sociale, capeggiato dal duca Colonna Di Cesarò. Ben presto Mancini divenne bersaglio dei fascisti lucchesi e fu costretto a ritirarsi da ogni carica pubblica. Dopo l’assassinio di  Matteotti, costituì  insieme  a Giorgio Di Ricco, Frediano Francesconi,  Alberto Magherini, l’avvocato Baracchini, Aldo Muston e Alfredo Poggi, un comitato segreto antifascista ben presto costretto ad interrarsi come un fiume carsico,  poi riaffiorato negli anni della Resistenza. Arrestato dai fascisti e rinchiuso in  San Giorgio dal 5 gennaio al 14 maggio del 1944, egli fu il punto di riferimento della democrazia lucchese ed essendo la figura più prestigiosa dell’antifascismo, fu scelto come primo  presidente del Comitato di Liberazione clandestino della città. Avendo partecipato a tre legislature, fece parte di diritto della Consulta nazionale, e fu anche il primo Rettore dell’Università di Pisa liberamente eletto, dal 8 giugno 1945 al 31 ottobre1947. Ritornato nel Partito repubblicano, nel 1953 fu candidato per le elezioni al Senato, impegnandosi con foga giovanile in una competizione che lo vedeva sconfitto in partenza. Morì il 18 settembre 1957, a causa di un’emorragia cerebrale. Silvio Ferri lo ricorderà nella seduta solenne dell’Accademia Lucchese di Scienze Lettere ed Arti, della quale Mancini era stato presidente, definendolo  un vecchio benefattore ed un illustre professore dalla candida barba patriarcale, dal vivido bagliore degli occhi, al quale la Natura aveva donato longevità, salute ed indomabile forza di spirito, come se gli avesse voluto affidare una speciale missione al di fuori e al di sopra del tempo.


EUGENIO CHIESA, INVOLONTARIO SECONDO PATRONO DI PORCARI

Nato a Milano il 18 novembre 1863, il suo nome assume ben altra importanza rispetto alla nascita del comune di Porcari, di cui comunque fu artefice.  Oltre che alla sua eperienza di giornalista politico sui vari giornali della sinistra postunitaria, egli fin da giovane manifestò idee repubblicane che poi lo portarono ad essere fra i fondatori del P.r.i. nel 1895. Quando nel 1898 la reazione conservatrice e militare investi il paese ed i circoli repubblicani, socialisti e cattolici urono sciolti, egli dovette fuggire  all’estero per evitare l’arresto. Ristabilita la normalità, potp rientrare in Italia, l’anno dopo ed a Milano fondò il gironale repubblicano “Il Crepuscolo” e poco dopo enne eletto consigliere comunale di Milano. Divenne ben  presto uno dei maggiori dirigenti del partito repubblicano e nel 1904 fu eletto per la prima volta al Parlamento, risultando eletto nel collegio di Massa e Carrara, grazie anche all’iuto degli anarchici. Da allora si legò politicamente alla Toscana, divenendo il punto di riferimento parlamentare della zona nord-occidentale e dei repubblicani di Lucca, i quali  fornirono i voti necessari  a Chiesa per essere eletto anche nelle successive elezioni, fino alle ultime che si poterono svolgere liberamente, nel 1921.  Nel 1907 si segnalò per la denuncia di scandali scoppiati alla Borsa di Genova e quasi contemporaneamente ribadì nel dibattito parlamentare l’opposizione repubblicana alla spese militari e sottoscrisse la proposta di egge di Bissolati, nel 1908, che intendeva vietare l’insegnamento religioso nelle scuole italiane, che ebbe anche l’appoggio di Ferdinando Martini. Nel  1911 denunciò il regime di monopolio delle assicurazioni e fu tenace oppositore alla guerra di Libia. Il suo comportamento sul Primo conflitto mondiale fu coerente con la tradizione risorgimentale, mazziniana  e garibaldina e dopo aver partecipato alle manifestazioni degli interventisti di sinistra, chiese di esere arruolato ed inviato al fronte. Ritornato dal fronte, prevedendo il disastro di Caporetto, attaccò duramente i criteri di conduzione della guerra e chiese la sostituzione di  Cadorna, vedendo in essa l’unico mezzo per riaprare una situazione  gravemente compromessa.    Vicino alle posizioni del sindacalismo rivoluzionario di De Ambris (col quale condivise l’esilio  e la morte in terra francese), fu molto attivo anche nelle battaglie civili per la libertà di pensiero e di espressione.
  

CARLO SFORZA,  UN GRANDE DIPLOMATICO FIGLIO DELLA NOSTRA REGIONE

Nato a Montignoso, allora in provincia di Lucca, il 24/9/1872 (moriva a Roma, il 4/9/1952), da una famiglia della piccola nobiltà provinciale, dopo essersi laureato in Legge intraprese la carriera diplomatica per l’influenza esercitata su di lui da Emilio Visconti Venosta, per cinque volte ministro degli Esteri del regno e legato all’epopea risorgimentale. Nel curriculum diplomatico di Sforza spiccano le sue prime missioni a Il Cairo, Parigi, Costantinopoli, Bucarest, Madrid, la sua partecipazione alla conferenza di Algesiras (1906), ancora a Costantinopoli durante la rivoluzione dei Giovani Turchi (1908) e la nomima di ambasciatore a Pechino, tra il 1911 e il 1915. Convinto mazziniano, vide la Prima Guerra Mondiale come occasione per dar vita ad un Europa di libere nazioni. Nel 1919 fu sottosegretario agli Esteri nei due ministeri Nitti e nel 1920, con Giolitti, divenne titolare di questo ministero, ottenendo positivi risultati, grazie alla sua volontà di rispettare le altrui istanze di nazionalità e malgrado le accuse di essere un  “rinunciatario” che gli vennero dai nazionalisti. La Marcia su Roma avvenne quand’egli era ambiasciatore a Parigi  e provocò le sue immediate dimissioni, decisione politicamente significativa ed eccezionale nel mondo diplomatico. Scelta la via antifascista, la percorse senza cedimenti, collaborando con Giovanni Amendola nell’Unione Nazionale e pronunciando in Senato una coraggiosa requisitoria contro il governo, dopo l’uccisione di Matteotti. In quei giorni progettò un’irruzione collettiva di antifascisti a Palazzo Chigi, per costringere l’allontanamento di Mussolini e, ancora lui cercò vanamente di convincere il re a ripristinare la legalità nel paese. Dopo pesanti intimidazioni: una casa bruciata al Cinquale, la revoca del passaporto, un’aggressione, scelse, nel 1927, la via dell’esilio. In stretti rapporti con Carlo Rosselli, Salvemini ed altri fuoriusciti, fu tra i più “rispettabili” antifasciti  all’estero e colu he più e meglio di altri lavorò per far capire all’opinione pubblica occidentale la gravità del fenomeno fascista. L’invasione tedesca della Francia lo costrinse nel 1940 a  rifugiarsi negli Stati Uniti, dove fu personaggio di rilievo della Mazzini Society. Nel 1943 tornò in Italia, passando per Londra, dove ebbe un tempestoso colloquio con Churchill, difensore dell’istituto monarchico  in Italia.


GIACOMO SIMONI

L’ingegner Giacomo Simoni, nato a Granaiola, Bagni di Lucca, nel 1847, intriso  di ideale mazziniano,  fu un personaggio importante nella storia del Risorgimento lucchese. Animato da quella Fede laica che insegna il rispetto della persona umana, della nostra come delle estranee, l’amore per l’umanità, la confidenza nei suoi progressi, il desiderio di contribuirvi,  anche materialmente, fondò il 30 maggio 1897   la sezione della Croce Verde di Bagni di Lucca, alla quale si collegava la sezione distaccata di Montefegatesi. La sua figura si colloca a fianco di Tito Strocchi del quale, più che un discepolo, fu un fratello spirituale, come scrive di lui il prof. Sereni, nel libro “Per l’Italia Giusta” (ed. M. Pacini Fazzi, 2005). Entrambi appartengono all’ultima generazione dei vinti ma non domi, i quali dopo l’unità d’Italia, continuarono a credere nell’idea-forza della Repubblica  che essi perseguirono senza scadere nell’ astrattezza, poiché animati dal precetto mazziniano compreso nel motto “pensiero ed azione”.  Giacomo Simoni si impegnò in una serie di battaglie politiche e sociali, quali la fondazione della Società Operaia di Bagni di Lucca, la costruzione della strada ferrata nella Valle del Serchio, l’introduzione dell’illuminazione elettrica per la località termale, dove grazie alla centrale che lui stesso aveva progettato e finanziato si giunse nel 1886 (addirittura prima di Lucca) a sostituire  il gas con la nuova fonte di energia. Simoni aveva partecipato ai moti insurrezionali della primavera del 1870, che, organizzati da Mazzini, avrebbero dovuto scoppiare simultaneamente, in varie parti d’Italia, Lucca compresa. Una banda armata, capeggiata da Tito Strocchi, avrebbe dovuto attraversare l’Appennino e marciare verso Firenze, che era ancora la capitale del Regno ed occuparla. L’impresa si rivelò ben presto irrealizzabile ed i rivoltosi, circondati dall’esercito, fra Prunetta e Piteglio, nell’Appennino pistoiese, furono costretti ad arrendersi. L’impresa valse al  Simoni  l’arresto e la reclusione, fino alla scarcerazione per amnistia, con l’accusa di “attentato contro la sicurezza interna dello stato commessa mediante cospirazione”.  Tali moti rappresentano gli ultimi sussulti dell’insurrezionalismo mazziniano, spentosi nel sangue del caporale Pietro Barsanti di Gioviano, fucilato nel Castello Sforzesco di Milano il 27 agosto del 1870, poiché riconosciuto colpevole di sedizione contro lo stato. Simoni, per la sua dedizione agli ideali progressisti, fu insignito di alti riconoscimenti da parte della fratellanza massonica alla quale appartenne, insieme allo Strocchi. L’impegno nella Croce Verde era un tassello imprescindibile nel mosaico della sua esistenza,  nella quale, all’impegno politico, si abbinava l’impegno nell’associazionismo laico animato dal filantropismo. Nel decennale della costituzione  di questa associazione, di essa si scrisse che “mettendo i giovani al contatto del dolore umano, li fa teneri delle sventure altrui, ne ingentilisce i cuori ne toglie la dura vernice dell’egoismo, educandoli soprattutto al disinteresse, a muoversi, ad agire senza il miraggio di un guadagno prossimo o lontano, ma semplicemente per la soddisfazione del dovere compiuto sotto l’impulso dei sentimenti buoni e generosi.” Che poi sono concetti simili a quelli contenuti nel testamento spirituale lasciato da Simoni, poco prima di morire, nel 1916, quando scriveva: “Avremo studiato anche troppo poco sui classici per l’ornamento retorico della parola e molto meno per rivestirla di stoffa bugiarda. Avremo studiato poco o nulla la matematica del tornaconto….abbiamo viaggiato in un mare più infido e per ideali assolutamente opposti. Eppure pel popolo o popolaccio che sia, qualcosa abbiamo fatto e preparato sempre a suo profitto”.


PIETRO BARSANTI - FIGLIO DIMENTICATO DELLA LUCCHESIA

Pietro Barsanti che rimase nella memoria di molti italiani almeno per mezzo secolo dopo la sua morte, sembra ripudiato dalla sua terra d’origine. A Lucca niente lo ricorda  e i suoi resti sono lontani, a Milano, nella città dove,  cosciente vittima  del suo  ideale, trovò la morte.  Neppure la colonnina mozza con inciso il suo nome e la targhetta  apposta sulla sua bara, che furono portate a Lucca nel 1906 da Eugenio Chiesa,  sono rimaste in città, trovando migliore sistemazione nella Domus Mazziniana di Pisa. Eppure a Barsanti resero onore Mazzini, Garibaldi, Saffi, Guerrazzi, Cavallotti e molta gente umile di tutta Italia che  gli  intitolò circoli associativi e sezioni di partito e che per anni commemorò il giorno della sua morte. Nato a Gioviano il 30 luglio del 1849,  ben presto si  trasferì a Lucca con la famiglia. Qui il giovane Pietro frequentò la scuola  dei Chierici regolari della Madre di Dio,  poi passò nel collegio militare delle Poverine a Firenze e infine alla scuola militare di Maddaloni. In servizio a Reggio Calabria,    entrò in contatto con le idee mazziniane che produssero la sua affiliazione  all’Alleanza Repubblicana Universale (1868). Il suo nome si collega a quel filone democratico che rifiutava lo stato monarchico e che  proprio nel 1870  gli si opponeva con i vari moti insurrezionali scoppiati  anche a Lucca. Era a Pavia,  nel marzo di  quell’anno, che iniziavano le sommosse e in una di queste, di scarso rilievo pratico e senza spargimento di sange, fu protagonista  proprio il Barsanti. Una sessantina di persone si presentarono alla caserma San Lino  per invitare i soldati ad aggiungersi alla loro dimostrazione. Gli ufficiali intervennero e fecero disperdere i manifestanti. Dopo poco, la calma era ristabilita. Qualche tensione si verificava, invece, all’interno della caserma, dove pochi militari cercavano di sobillare la truppa. Fra questi il caporale Barsanti che, armi in pugno,   teneva sequestrati alcuni sottufficiali. L’eccitazione ben presto si spense e il caporale si consegnava ai superiori. La sua sorte, a questo punto, era segnata. Accusato di tradimento, fu sottoposto al giudizio del  Tribunale Militare, intenzionato fin dall’inizio a comminargli la pena di morte, come  esemplare condanna. Fu subito evidente che la pena inflitta era sproporzionata rispetto all’accaduto. L’opinione pubblica si mobilitò contro l’incivile sentenza e la contessa Anna Pallavicino Trivulzio raccolse le firme di  40.000 donne favorevoli alla grazia per il  giovane lucchese. Le coscienze democratiche insorsero, ma niente smosse il governo Lanza che non accolse le richieste di clemenza. Il 27 agosto 1870, il giovane Barsanti, orgoglioso delle sue idee e senza  manifestare alcun pentimento,  veniva fucilato nel Castello Sforzesco di Milano. Il suo non era un pensiero aberrante, bensì  un’ idea-forza che animò molti italiani e che trovò democratico compimento nel consenso popolare del 2 giugno 1946. Proprio quando  il Presidente della Repubblica  intende ripristinare la solennità di quella data, simbolo dimenticato dell’identità nazionale, anche Lucca  potrebbe adoperarsi per il ritorno nella sua piccola patria dei resti di Barsanti.