Celebrazione eventi e personaggi storici





ORAZIONE PRONUNCIATA A GIOVIANO – LUGLIO 2005
Scrisse Alfredo Petretti, repubblicano  di Pescaglia scomparso di recente, uomo fiero, caustico e pittoresco: “ci sono date ricorrenti, convenzionali, date sulle quali i popoli si orientano per l’interpretazione dei fatti passati e per l’ispirazione di comportamenti. Le date, rintocchi della memoria, pendoli capovolti che puntano al centro di mondi nascosti, sono dei contenitori di eventi, di fatti ed hanno un senso finché lo hanno gli eventi ed i fatti”.  Parlo di quel Petretti che fu il promotore dell’iniziativa che approdò qualche anno dopo, grazie al sindaco di Borgo a Mozzano, Gabriele Brunini ed a Stefano Reali, alla traslazione della salma del caporale Barsanti nella sua Gioviano.  Quest’anno  il pendolo ha suonato le ore del bicentenario della nascita di Giuseppe Mazzini , ma questo pendolo capovolto ha rintoccato con suono malinconico, per il ritardo accumulato nelle coscienze civiche degli italiani, per le occasioni perse nel cammino della nostra nazione, per certi segnali recenti che inducono a temere una regressione di quei valori laici che dovevano essere l’antidoto contro l’intossicazione ideologica di tanti  cervelli. Nella mia relazione tenuta il 24 maggio a Lucca, ho cercato  di portare il mio mattone per la costruzione dell’edificio della memoria, parlando di Mazzini e dei suoi rapporti con Lucca. Nelle bozze del mio intervento  vi era anche una citazione che mi astenni dal riportare a voce, perché mi sembrava eccessiva nel suo contenuto. La frase era tratta dal giornale lucchese di fine ‘800 che si chiama Il Figurinaio , il quale scriveva, in polemica con l’amministrazione comunale  che la provincia di Lucca  fu quella che dette più martiri alla Riforma, più soldati a Garibaldi, più discepoli a Mazzini  e che adesso, invece, era alla vergognosa mercé dei clericali. Nel frattempo, ho letto il bellissimo libro “Per l’Italia giusta” del prof.  Sereni che mi ha fatto un po’ pentire della mia prudenza. Comunque da quel libro ho tratto un po’ di gratificazione: non per avere trasmesso conoscenze utili alla stesura del volume, ma  perché è da qualche  anno che provo a scrivere  argomenti che trattano questo aspetto della storia lucchese e che, magari, scritti da me, che non sono un  “intellettuale organico” -…come si diceva secondo certi canoni gramsciani ..-  lasciano il tempo che trovano. Ma  se scritte dal  prof. Sereni, in modo così scientifico e nel contempo denso di pathos lasciano il segno.  Sono davvero felice perché la nostra storiografia  si è arricchita di uno studio che  valorizza le idee laico-risorgimentali esistite anche nella nostra terra. Certo il  baricentro di quel libro  è spostato fuori della piana e della città di Lucca, perché dice il Sereni: per il Serchio, dopo l’incontro coi suoi affluenti, si apre la vasta spianata che da Borgo a Mozzano va oltre Decimo. Qui l’aspettano le gole di Sesto e di Vinchiana. Quando le ha superate, il fiume può puntare diritto verso Lucca. Ormai appartiene alla “piana”. Da qui in avanti il panorama muta sensibilmente. Quando la vasta conca che tiene in grembo la Valle finisce, il fiume già intravede la città. E’ un’altra geografia, ma anche un’altra storia. Sarà anche un’altra storia, perché Lucca è una città complessa, con certe sue peculiarità. Ma non credo però che vi siano paratie stagne che chiudono il fluire delle idee da un luogo a un altro, perché esse non sono come il fiume, che corre solo in una direzione. Esse vanno ovunque, dove trovano uno spazio che possa accoglierle. Il mio modesto lavoro si basa più su Lucca e la sua piana, ma  vi sono escursioni inevitabili dalla città verso le colline ed i monti della Valle del Serchio, ed anche verso il mare. Ed io non vi vedo un’altra storia, vedo la stessa storia da un altro lato, od in scala più ridotta, ma anch’essa confluisce  sull’obiettivo comune. E la storia laica di Lucca non confligge con quella dell’alta valle del Serchio, ma ne diventa complemento, o viceversa.  Pensiamo ad esempio al comune di Lucca che concede, nel 1872, la cittadinanza onoraria al barghigiano Antonio Mordini, anche se ciò provoca  l’ira del marchese Bottini. Erano i giorni successivi alla morte di Mazzini ed il suo giornale, L’Amico del Popolo, oltre a offendere la memoria del Grande Genovese, così scriveva di  Mordini: “ se si considera che il brav’omo è quello che conservò il famoso orinale del famosissimo eroe dei due mondi, bisogna convenire che nessuno più di lui è degno di essere cittadino di Lucca; essendo questa città tanto celebre per il negozio…Basta, faccio punto perché voglio che la mia cronaca possa essere letta anche a desinare…”. Oppure pensiamo al fascino bruniano diffuso nella Valle, come ci ricorda Sereni: ma esso  non  si era già manifestato a Lucca,  sin dagli inizi degli anni ’70? Basta scorrere le colonne de “Il Serchio” lucchese di Tito Strocchi. Poi -  eravamo nel  1890 -…  in quell’apposito comitato lucchese creato per edificare un monumento a Lucca per  il martire nolano, che comprendeva  vari lucchesi come l’orafo Farnesi, Arnaldo Gemignani, Enrico Gambogi ed altri, non vi erano anche l’ing. Giacomo Simoni, di  Bagni di Lucca,  Serafino Togneri di Coreglia, ed altri di Viareggio, Pietrasanta, Camaiore, Pescia, Montecarlo, Borgo a Buggiano, Chiesina Uzzanese ? Ed Adamo Lucchesi, di Pieve dei Monti di Villa,  non era quello che suonò le campane della Chiesa di piazza S. Michele, a Lucca, alla notizia della presa di porta Pia? E il suo monumento funerario non fu realizzato dietro sua commissione, ancora vivo e vegeto, dallo scultore lucchese Petroni , nel 1922?  Pensiamo anche ad Augusto Mancini, ormai naturalizzato cittadino lucchese ed i suoi rapporti con Coreglia e con tutta la valle. Ed è  lo stesso Mancini  che celebra Barsanti nel 1946 a Gioviano, nella piazzetta a lui intitolata dove c’è l’epigrafe dettata proprio dallo stesso  professore mazziniano. Pensiamo agli stretti rapporti di Tito Strocchi con il barghigiano  Simoni. Ma pensiamo anche ai rapporti di Lucca con quel circolo culturale e politico che fu definito la Repubblica di Apua, dall’immaginifica penna del poeta repubblicano Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, la quale, anch’essa se geograficamente e storicamente si incentra sulla zona ligure ed apuana, sconfina nella fluidità dell’attività intellettuale, nell’area versiliese e lucchese. Una famiglia  animata da diverse personalità tenute insieme, però,   da un forte collante che li fa ritrovare unite nel culto del progresso, del mito prometeico che si incarna proprio nella figura del poeta inglese Shelley, alla cui memoria  l’artista  lucchese Urbano Lucchesi  (nipote del Petroni) realizzerà la scultura di Viareggio, inaugurata il 30 settembre del 1894, con un’intensa cerimonia alla quale era presente anche Giacomo Puccini. Voglio dire, da lucchese disincantato, che conosce i pregi e i difetti della città, che  sebbene Lucca sia  stata giudicata un’entità conservatrice,  essa  fu  anche percorsa, nel suo passato, da un filone culturale e politico mai domo, in grado di smentire il cliché di città bigotta e conformista. Lucca fu formata anche da cittadini che non intendevano rassegnarsi - come ebbe a scrivere il giornale “La Nazione” nel settembre del 1893 - a “rappresentare davanti all’Italia la parte di sagrestani” e che  coltivavano, invece,  una vivace libertà di pensiero.Tanto per rendere l’idea di questo fermento che agitò la città  nel suo passato, vorrei  ricordare il giudizio dell’ Inquisizione romana su Lucca cinquecentesca:  luogo più infetto d’ Italia”, dove si partorivano “più figli di Calvino che di san Pietro”. Vorrei inoltre rammentare il nome di  Ottaviano Diodati (1716-1786), “uno dei più versatili ingegni che siano fioriti in Lucca nel XVIII secolo” al quale deve essere riconosciuto il merito per la  ristampa, a Lucca, de l’Enclycopédie di Diderot e soci, impresa poco valorizzata, se è vero che il cammino fortunato dei filosofi francesi, in Italia,  inizia proprio con la ristampa lucchese (1758-76). Nella storia di Lucca vi furono idee religiose riformate, istanze illuministiche ed anche l’inevitabile “convitato di pietra” della Massoneria, tanto che si è scritto che il primo italiano ad esservi affilato fu il musicista lucchese Francesco Saverio Geminiani (a Londra, nel 1725). Lucca non rimase neppure un’oasi sottratta ai fermenti dell’unificazione nazionale ed all’opera di modernizzazione del paese e  nella sua storia  c’era abbondante spazio anche per Mazzini e per le idee repubblicane, che se non altro per assonanza, erano appartenute al suo passato di libertà e indipendenza. Le prime notizie di Mazzini si hanno in città, per quel che mi consta, nei primi anni del 1830 durante il Ducato: il 10 marzo 1834 il console di Lucca a Livorno, invia al suo governo alcune copie di una circolare di “Giuseppe Mazzini”, dopo aver trasmesso il resoconto della tentata sollevazione della Savoia, alla quale aveva partecipato anche Nicola Fabrizi, per il quale la polizia austriaca sconsigliava di dare ospitalità.   Presenze repubblicane si erano segnalate, dopo i fallimenti dei moti del 1831, nella zona del Compitese, a Segromigno, a Seravezza; e a Pietrasanta venivano arrestati dagli sbirri i fratelli Bichi e Michele Carducci, il padre di Giosué. Giuseppe Pieri, cospiratore lucchese di  Ponte a Moriano,  che prese parte all’attentato a Napoleone III e che insieme a Felice Orsini, venne ghigliottinato a Parigi, rientra anch’egli nell’universo mazziniano. Sembra certo che egli avesse avuto rapporti epistolari con Mazzini e che questi, comunque, diffidasse di lui. Anche Giosuè Carducci fu acceso difensore di Mazzini e dell’idea repubblicana, fino alla nomina a Senatore del Regno il 4/12/1890, che già preceduta dalla celebre “Ode alla regina” sembrò sigillare la sua conversione dal repubblicanesimo alla monarchia, ma che a ben vedere secondo Spadolini, fu un grandioso atto di amore per l’Italia, di cui temeva la disgregazione, sotto gli attacchi del regionalismo, del socialismo e della reviviscenza cattolica. Egli non spezzò mai i suoi legami con la Lucchesia e la sua figlia maggiore si sposò con il lucchese Carlo Bevilacqua, professore di matematica e proprietario terriero della  Maolina, alle porte della città , dove sostava spesso e dove forse compose l’epigrafe per il monumento funebre di Tito  Strocchi, che ebbe traversie di collocazione pari a quante ne aveva conosciute la tumulazione della salma. Il “soldato garibaldino – anima mazziniana” come ebbe a definirlo Augusto Mancini, ricordava al poeta   il contrasto tra le idealità risorgimentali e l’opacità del presente “più degno invero di un popolo di eunuchi che non di robusti e dignitosi italiani”. Nel biennio rivoluzionario del 1848-49, la famiglia Cotenna, di Monte S. Quirico, continuatrice della tradizione del giacobino Vincenzo Cotenna, era centro di coagulo e di asilo per i repub­blicani. Non è certa la presenza di Mazzini a Lucca: ma per molto tempo è rimasta viva una tradizione orale per la quale Mazzini sarebbe stato ospite clandestino dei Cotenna nel marzo del 1853, nella loro casa di Monte S. Quirico. Il grande amore di Mazzini, Giuditta Bellerio Sidoli, dopo varie peregrinazioni, perseguitata dalla polizia, riparò a Lucca il 18/8/1836 e si trattenne per una quarantina di giorni proprio in casa Cotenna, con grave preoccupazione delle autorità. Dopo l’unità d’Italia, si distingue nel panorama laico-risorgimentale lucchese la  figura di Tito Strocchi  (Lucca, 1846– 1879),  che fu partecipe dei moti insurrezionali  del giugno 1870. Mazzini lo definì “uno dei miei migliori…”.Affiliato alla Massoneria, cercò di indirizzarla ad un migliore impegno a favore della causa repubblicana e quando si arrivò alla sua quasi completa unificazione, nell’assemblea costituente di Roma, nell’aprile del 1872, lo Strocchi fu fra i più decisi  nel proporre che tale istituzione venisse dichiarata “associazione repubblicana”, costringendo persino Federico Campanella, anch’egli  fedele mazziniano, a richiamarlo all’ordine per non pregiudicare i faticosi equilibri che stavano per essere raggiunti in tale consesso. I rapporti tra Mazzini e la massoneria sono ancora controversi.  Ma quando la Libera Muratoria italiana risorge a Torino nel 1859, dividendosi però in due rami, uno che si inserisce nello stato monarchico, l’altro diretto da Palermo, che si caratterizza in senso repubblicano, Mazzini è pronto ad  indirizzarle la sua attenzione, cercando nel contempo di fare penetrare nelle logge gli iscritti alla sua nuova creazione l’Alleanza Repubblicana, poi trasformata in Alleanza Repubblicana Universale. L’A.R.U.  - a cui  venne affiliato il nostro  Pietro Barsanti -  rientrava  nella strategia di Mazzini di far penetrare i suoi affilaiti anche nelle logge, per politicizzarle in senso repubblicano. Parlare di Pietro Barsanti , in questo luogo,  dopo quanto è stato detto e fatto su di lui in questi ultimi anni, e con grande merito, sarebbe forse sconsigliato dall’antico adagio per il quale non è opportuno “portare vasi a Samo e nottole ad Atene”, ma il forte e buono  odore di bucato che promana dalla memoria di questo  giovane  sostenitore di una idea-forza che avrebbe trovato compimento il 2 giugno del 1946, merita sempre un attimo di rimembranza. Egli, del resto,  fu nella memoria di molti italiani almeno per mezzo secolo dopo la sua morte. A lui resero onore Mazzini, disperato per la sua  tragica fine, Garibaldi, Saffi, Guerrazzi, Cavallotti. E molta gente umile di tutta Italia, per anni, commemorò il giorno della sua esecuzione. Il fenomeno cossidetto del “barsantismo” durò a lungo, collegandosi all’irredentismo: in molti parti d’Italia i circoli Oberdan si alternavano ai circoli “Barsanti”, continuando la la protesta contro la soluzione dinastica del Risorgimento. Nato a Gioviano, nel 1849, il giovane si era trasferito ben presto a Lucca, dove abitò, con la famiglia, in via S. Giorgio. Qui frequentò la scuola  dei Chierici regolari della Madre di Dio,  poi passò nel collegio militare delle Poverine a Firenze e infine alla scuola militare di Maddaloni. In servizio a Reggio Calabria,   entrò in contatto con le idee mazziniane che produssero la sua affiliazione  all’Alleanza Repubblicana Universale (1868). Il suo nome si collega agli ultimi  moti mazziniani del 1870, che coinvolsero  anche Lucca. Le sommosse erano iniziate a Pavia,  nel marzo di  quell’anno, ed in una di queste, nella caserma del Lino,  di scarso rilievo pratico e senza spargimento di sangue, fu protagonista  proprio il Barsanti. Arrestato e rinviato a giudizio del Tribunale Militare con l’accusa di tradimento, venne condannato a morte. Fu subito evidente che la pena inflitta era sproporzionata rispetto all’accaduto. L’opinione pubblica si mobilitò contro l’incivile sentenza; le coscienze democratiche insorsero, ma niente smosse il governo Lanza che non accolse le richieste di clemenza. Il 27 agosto 1870, il giovane Barsanti, orgoglioso delle sue idee e senza  manifestare alcun pentimento,  veniva fucilato nel Castello Sforzesco di Milano.    Ancora oggi mi risultano attivi alcuni circoli repubblicani intitolati  a Barsanti, nel Ravennate e nelle Marche. Nella toponomastica di Genova,  figura la via denominata  “Passo Barsanti Pietro - Caporale” che si colloca fra via Caffaro e Corso Paganini. Eugenio Chiesa, che fu un personaggio di spicco del movimento repubblicano, portò a Lucca, nel 1906, la simbolica colonnina mozza del suo cippo funerario, insieme alla targhetta metallica che era stata messa sulla bara tumulata nel cimitero di Porta Vittoria a Milano. La colonnina  e la targhetta, che erano state sistemate prima nei locali della Fratellanza Artigiana di Lucca e poi in quella del Circolo repubblicano Tito Strocchi,  trovarono definitiva collocazione nella domus mazziniana di Pisa, per volontà di Giorgio Di Ricco, di cui accennerò, tra poco, il quale tenne a lungo questi ricordi in custodia in casa propria.  E citando Di Ricco giungiamo a quell’altro filone mazziniano che si riapre, a Lucca,  dopo la fine della I Guerra mondiale e che quasi andava alla riscoperta delle idee del maestro, che si erano in parte confuse con quelle legate al Libero Pensiero e al Positivismo, le cui esasperazioni materialiste erano state sempre temute e avversate dallo stesso Mazzini. Personaggi di questo parziale ritorno alle origini, furono proprio  Giorgio Di Ricco ed il medico Frediano Francesconi, che rianimarono il movimento repubblicano dopo la crisi della fase bloccarda  (alleanza politica fra socialisti, repubblicani e radicali) e, che per quasi 50 anni, furono i capi carismatici di un gruppo minoritario,  ma che aveva comunque sempre manifestato un solido  radicamento popolare, specialmente fra gli artigiani che si professavano laici. Non posso esimermi, dal soffermarmi, infine, in questa carrellata forse non del tutto organica, di personaggi che appartennero alla storia democratica della città, sulla figura del già citato Augusto Mancini, originario di Livorno e che chiamato nel 1895, appena laureato, ad insegnare lettere classiche nel Liceo Machiavelli di Lucca,  scelse la nostra città come  sua  patria adottiva. Ascoltare questo grande letterato era un piacere - scrisse di lui Salvatorelli - dotato com’era di “una parola fluida, dai periodi ampi e formalmente impeccabili”  e i suoi interventi all’Accademia dei Lincei,  di cui  era socio, rappresentavano un contributo di alta qualità. Le idee di Mazzini erano da lui ben conosciute ed interiorizzate, tanto da fargli ritenere la “Repubblica” come una “suprema creazione morale”. Sua fu l’iniziativa dell’istituzione della Domus Mazziniana di Pisa della quale fu il primo presidente.  Morì il 18 settembre 1957 e Silvio Ferri, di Valdottavo, archeologo di grande fama, anch’egli di simpatie mazziniane (fu amico di Pacciardi, maestro di Alfredo Petretti, citato in apertura, al quale era legato da un affetto quasi paterno, nonché padre di Claudio che fu consigliere comunale repubblicano di Lucca per molti anni) lo ricorderà nella seduta solenne dell’Accademia Lucchese di Scienze Lettere ed Arti, della quale Mancini era stato presidente, definendolo  un vecchio benefattore ed un illustre professore dalla candida barba patriarcale, dal vivido bagliore degli occhi, al quale la Natura aveva donato longevità, salute ed indomabile forza di spirito, come se gli avesse voluto affidare una speciale missione al di fuori e al di sopra del tempo.  Avviandomi alla conclusione,  vorrei citare quella frase di Mazzini: “se la mia fede poggiasse nel vero, dirà il futuro”. Su  questa domanda senza risposta, credo che sarebbe opportuno una riflessione seria e non faziosa da parte degli italiani. Personalmente,  ritengo che già da tempo si sarebbe dovuto completare meglio il senso di quel concetto di Gaetano Salvemini, il quale diceva che Mazzini si ama e Marx si studia: no, anche Mazzini si doveva studiare (ed io per primo, che ho parlato più per sentimento che per conoscenza scientifica)!  Ne avrebbero tratto giovamento, a mio modesto parere, anche i soggetti ai quali  sono indirizzate le riflessioni dello scomparso Lucio Colletti,  recentemente pubblicate nel libro  “Lucio Colletti – Scienza e Libertà”,  nel quale si analizza impietosamente il peso ideologico che ha gravato su diverse generazioni di italiani, ora spaesate di fronte al crollo delle loro antiche certezze. Ne avrebbe beneficiato, forse anche chi è stato sempre pronto nella critica verso un Mazzini troppo”religioso”, compiendo il “capolavoro” di aver rigettato anche quella forma di religiosità  civile che sarebbe stata molto utile,  specie in questi momenti di allarme (ma sarà del tutto fondato?) contro il “relativismo” dilagante. Utile specialmente a certi personaggi della nostra politica, così  poco convincenti nei loro improvvisi zeli mistici e religiosi,  da sembrare usciti dalla novella del Boccaccio di  Ser Cepparello, divenuto - non si sa come -  San Ciappelletto.  Da quando a partire dagli anni ’90 è cresciuta ancor più la disaffezione verso la politica, sembra si sia rafforzata la ricerca di una religiosità (anche per le note drammatiche vicende internazioni seguite al 11 settembre), che alla fine finisce per indirizzarsi verso forme di tradizionalismo religioso.  Sembra dunque che la secolarizzazione si sia arrestata e nel contempo sia aumentata la penetrazione (che già per tradizione era elevata) della religione confessionale nella politica. Purtroppo,  benefici sulla morale civile non se ne vedono: anzi, recenti studi affermano che sia in corso un brusco calo  anche di quel po’ di civismo fin qui faticosamente raggiunto. Forse la questione è che, di fronte ai pericoli che le  divisioni religiose possono provocare , manca al nostro paese, per ragioni storiche ben note,  pur sembrando paradossale, un’altra religione:  quella civile.  Quella religione laica  che dovrebbe rappresentare lo “statuto del buon cittadino” . Ma solo riuscendo a ricostruire due modelli classici caduti in disuso nel lessico italiano,  cioè, “repubblicanesimo” e “religione civile”, è possibile ritrovare la virtù del civismo  e dell’integra-zione civica.  Il tramonto di una cultura laica operato dallo scontro/incontro tra le  culture politiche  marxista e   cattolica,  ha prodotto la disfatta del gracile senso di appartenenza a questa Italia e l’affermarsi del ruolo di supplenza morale di altri soggetti. Ebbene, per meglio dare valore al nostro Stato, l’insegnamento di  Mazzini  sarebbe stato utile,  grazie alla sua profonda religiosità senza intermediari, che confidava nell’educazione morale e materiale dei popoli e che offriva un modello di incessante ricerca di perfezionamento personale mai disgiunto da quello a favore dell’umanità, e che trova sintesi nella  felice formula “Pensiero e Azione”, che potrebbe essere offerta come alternativa moderna, alla regola benedettina di nuovo in auge dell’Ora et Labora. La  religiosità di Mazzini è cosa complessa che non può esaurirsi in poche righe. Resta il fatto che  forse essa poteva offrire maggiori garanzie per la salvaguardia di quel caposaldo della modernità che è il principio della separazione tra Stato e Chiesa, fra politica e religione, scaturito dopo i bagni di sangue della Guerra dei Trent’anni, dalla pace di Westfalia. La stessa visione religiosa di Mazzini, basata su Libertà e Progresso, creerebbe forse un  minor conflitto nell’approccio alla Scienza, tema delicato in questi nostri scenari contemporanei. Purtroppo il nostro paese, dalla grande cultura classica e giuridica, ma anche degli avvocati azzeccarbugli, dove per la sottigliezza si “fila caligo” (si fila la nebbia)…, è anche quello in cui la Scienza è ancora considerata da molti  un’empia emulazione degli dèi: e molti giovani  ricercatori sono costretti ad emigrare, quasi “religionis causa”.  Vi è tuttora nella devozione popolare un forte filone che condanna le prodezze tecnologiche come assalti contro l’ordine divino: se Dio aves­se voluto che l’uomo volasse gli avrebbe dato le ali.  Siamo il paese dove Galileo Galilei è stato costretto all’abiura e dove Giordano Bruno è stato arso sul rogo (e non solo lui…).Siamo il paese dove la caricatura dell’intelligenza scientifica è stata magistralmente rappresentata dal Manzoni, nella figura di Don Ferrante, che ritenendosi uomo di scienza non credeva al contagio della peste, essendo tale epidemia dovuta alla  momentanea congiunzione di Giove con Saturno. «No, no,» riprese don Ferrante: «non dico questo: la scienza è scienza; solo bisogna saperla adoprare….. La neghino un poco, se possono, quella fatale congiunzione di Saturno con Giove. .. E tanto affannarsi a bruciar de’ cenci! Povera gente! brucerete Giove? brucerete Saturno?» His fretus, vale a dire su questi bei fondamenti, non prese nessuna precau­zione contro la peste; gli s’attaccò; andò a letto, a morire, come un eroe di  Metastasio, prendendosela con le stelle. Purtroppo, il nostro paese non è solo questo di don Ferrante,  è anche quello nel quale il riverito campione del liberalismo, Benedetto Croce, definiva  le teorie scientifiche “ricette di cucina che talvolta hanno successo”. Il paese, dove, per speculare rovesciamento, il Marxismo spacciatosi come sapere scientifico, è fallito all’atto pratico, rivelandosi fra l’altro a detta di un marxista pentito, come il Colletti già citato -   un insieme di astruserie metafisiche e antiscientifiche. Il paese, dove ancora nel 1964 lo scienziato Felice Ippolito, ex direttore del Consiglio Nazionale per la ricerca sul nucleare, veniva esposto al pubblico ludibrio per i suoi sforzi di modernizzare la ricerca italiana, finendo credo anche in carcere. Mazzini proponeva, invece,  un quid medium tra Libertà irresponsabile e paura della libertà, nei “Doveri dell’Uomo”,  dicendo che la libertà è la «condizione della umana responsabilità, …senza la qua­le non è merito né demerito», nella facoltà di scegliere fra il bene e il male, cioè fra il dovere e l’e­goismo.  Essa è l’elemento di base dell’e­voluzione dell’Umanità, e suo scopo pri­mario è il Progresso – collante ideale tra Libertà e Scienza. Se il risultato del­la scelta umana non porta al Progresso, questa, diceva l’apostolo laico,  è stata errata. Bisogna pertan­to rivederla, ed esaminare se su di essa ha influito il senso del dovere o l’ egoismo.     Diceva Cartesio:  “ una scienza senza coscienza, è rovina dell’anima”….tuttavia  tale nobile attività umana deve potersi sviluppare senza essere mortificata da dogmi e pregiudizi,  e deve essere vòlta a riversare il suo bene  sull’umanità.  Il che, poi, è quello  spirito dimostrato dall’ing.  Simoni, di Barga, il quale, intriso  di ideale mazziniano, è cosciente che la redenzione dell’umanità non è realizzata, e forse non lo sarà mai, ma  tuttavia non  diminuisce il suo sforzo di ricerca, perché la vita è per lui,  attesa e preparazione.  Animato da quella Fede laica che insegna il rispetto della persona umana, della nostra come delle estranee, l’amore per l’umanità, la confidenza nei suoi progressi, il desiderio di contribuirvi,  anche materialmente, egli realizza il suo progetto di dare a Bagni di Lucca, già nel 1886,  una nuova “luce”  non  realizzata  con il gas ma con l’energia elettrica della sua centrale. “Avremo studiato anche troppo poco sui classici per l’ornamento retorico della parola e molto meno per rivestirla di stoffa bugiarda – scrisse il Simoni nel suo testamento spirituale - ….avremo studiato poco o nulla la matematica del tornaconto…ma non ci siamo fermati….ed abbiamo viaggiato lo stesso in questo mare infido, per ideali opposti”, ossia…. per realizzare quell’”Italia più giusta”  racchiusa nella parola “Repubblica”. Ed è  proprio per tutti costoro,  Barsanti, Simoni,  Togneri e  gli altri della nostra terra pervasi dalla fiamma dell’ideale mazziniano, che non va dimenticato l’altro grande insegnamento dispensatoci proprio da Giuseppe Mazzini: “Gli individui muoiono; ma quel tanto di vero che essi hanno pensato, quel tanto di  buono che essi hanno operato non va perduto con essi; l’Umanità lo raccoglie e gli uomini che passeggiano sulla loro sepoltura ne fanno loro pro’”.
Roberto Pizzi